Sentirsi soli online è normale? Cause e soluzioni della solitudine digitale.

Ragazzo seduto da solo su una panchina urbana, guarda lo smartphone mentre intorno fluttuano icone di chat e notifiche, simbolo della solitudine nonostante la connessione digitale.

È normale sentirsi soli anche con tanti amici sui social?

Sì, è normale. Succede a moltissimi ragazzi, anche a chi sembra popolare e sempre circondato da persone. Passare ore tra chat, messaggi vocali, like e videochiamate non garantisce automaticamente di sentirsi meno soli. La quantità non diventa qualità: avere cento chat aperte non significa avere qualcuno con cui confidarsi davvero.
Pensiamo a Marco, 15 anni. Ha oltre 700 contatti su Instagram, riceve decine di messaggi al giorno, eppure a volte la sera dice di sentirsi “il più solo di tutti”. Perché? Perché sa che se scrivesse “oggi sto male”, probabilmente riceverebbe un cuore o un emoji, ma non un invito a parlarne davvero. Questo esempio mostra come il digitale possa riempire il tempo, ma non sempre colmare il bisogno di relazione.

Cosa raccontano gli studenti sulla solitudine digitale?

Durante i laboratori di Felicemente a Scuola emergono spesso testimonianze simili. Una ragazza di seconda media ha detto: “È come se avessi tante persone attorno, ma nessuna pronta ad ascoltarmi davvero”. Un altro studente, più grande, ha raccontato che la cosa peggiore non è non ricevere messaggi, ma riceverne troppi che non dicono nulla. Sono frasi che pesano: “ok”, “ci sta”, “ahah”. Veloci, impersonali. Ti fanno sentire più invisibile che visto.
Quando invece c’è uno spazio per guardarsi negli occhi, condividere senza fretta, succede qualcosa di diverso. Una classe di Torino, durante un circle time, ha sperimentato un esercizio semplice: ognuno doveva raccontare un momento della settimana in cui si era sentito davvero ascoltato. Molti ragazzi hanno parlato di piccoli episodi fuori dallo schermo: una chiacchierata con un compagno, un gioco in cortile, un abbraccio ricevuto. Nessuno ha citato i social. Questo dice molto su cosa conta davvero.

Che conseguenze ha la solitudine sul cervello degli adolescenti?

La solitudine non è solo “una sensazione nella testa”. La scienza lo conferma: studi hanno mostrato che l’isolamento sociale attiva le stesse aree cerebrali coinvolte nel dolore fisico (National Library of Medicine). È come se il cervello interpretasse l’esclusione come una ferita.
Gli effetti sono seri: calo della motivazione, difficoltà di concentrazione, minore rendimento scolastico. In alcuni casi porta ansia o depressione. Un sondaggio ISTAT ha mostrato che negli ultimi anni cresce il numero di adolescenti che dichiara di sentirsi isolato anche in mezzo ai coetanei. Questo non significa che siano “deboli”, ma che il cervello ha bisogno di contatti reali per funzionare bene.
Pensiamo a Luca, che in classe non parlava mai. I compagni lo descrivevano come “sempre al telefono”. Durante un laboratorio, ha ammesso: “In chat scrivo tanto, ma quando chiudo il telefono mi sento vuoto. È come se non fosse successo niente”. Le sue parole descrivono bene gli effetti della solitudine digitale: ti dà l’illusione di compagnia, ma alla fine ti lascia scarico, proprio come una batteria che si consuma senza ricaricarsi.

Come riconoscere i segnali della solitudine digitale?

I segnali ci sono, ma spesso non li vediamo. Uno studente che appare sempre online può in realtà nascondere un forte senso di isolamento. Controllare continuamente le notifiche, non riuscire a staccarsi dallo schermo, sentirsi esclusi anche in mezzo a un gruppo WhatsApp: sono tutti campanelli d’allarme.
C’è anche un aspetto emotivo. Molti ragazzi raccontano di provare frustrazione quando un messaggio importante resta senza risposta. Oppure si sentono invisibili quando vedono gli altri organizzarsi per uscire e loro non vengono invitati. Questa esclusione digitale pesa quanto, se non più, di un’esclusione dal vivo.
Un esercizio che facciamo con i ragazzi è chiedere: “Racconta un momento in cui ti sei sentito davvero parte di un gruppo”. Quasi sempre citano situazioni vissute fuori dallo schermo: giocare insieme, studiare in biblioteca, fare sport. Questo dimostra che le esperienze reali restano nella memoria emotiva, mentre quelle virtuali spesso si dissolvono.

Come aiuta il metodo Felicemente a Scuola?

Il metodo Felicemente a Scuola non si limita a parlare di emozioni, ma propone pratiche concrete per rafforzare i legami. Giochi cooperativi, attività di gruppo, circle time e ascolto attivo creano occasioni in cui gli studenti si guardano davvero, si ascoltano, imparano a fidarsi.
In una scuola professionale del Piemonte abbiamo visto una trasformazione evidente. Una classe frammentata, con piccoli gruppi che non si parlavano, ha iniziato un percorso con attività cooperative. All’inizio c’era diffidenza: risatine, battute, sguardi bassi. Dopo alcune settimane, gli stessi studenti hanno cominciato ad aiutarsi spontaneamente. Alla fine dell’anno hanno raccontato: “Adesso ci conosciamo meglio, non ci sentiamo più soli”. Questo dimostra che non servono grandi discorsi, ma esperienze vissute che cambiano la percezione reciproca.

Qual è il ruolo della scuola nel combattere la solitudine digitale?

La scuola ha un ruolo enorme. Non può sostituire tutto, ma può offrire spazi protetti e guidati dove i ragazzi imparano a relazionarsi. Non si tratta solo di fare lezione, ma di costruire una comunità educativa. La scuola può:

  • Creare momenti di dialogo regolare, dove gli studenti si sentono ascoltati.
  • Favorire attività di gruppo, non solo come compiti, ma come esperienze di collaborazione.
  • Educare a un uso consapevole del digitale, senza demonizzarlo, ma mostrando come bilanciarlo.
    Un dirigente scolastico con cui abbiamo lavorato ha detto: “Se i ragazzi trovano nella scuola uno spazio in cui sentirsi riconosciuti, non scappano dai banchi. Rimangono, e crescono”. È un messaggio chiaro: la scuola può essere un antidoto alla solitudine, se sceglie di esserlo.

Come passare dalla connessione digitale alla relazione vera?

Il digitale non è un nemico. Può essere utile per mantenere contatti a distanza, scoprire informazioni, comunicare rapidamente. Ma se diventa l’unico strumento, non basta. Il punto è trovare equilibrio: tempo online e tempo reale, chat e parole dette dal vivo, centinaia di contatti e poche relazioni profonde.
La scuola è un laboratorio perfetto per allenare questa capacità. In classe si possono sperimentare dinamiche di collaborazione, imparare a gestire conflitti, scoprire che l’altro non è un’icona sullo schermo ma una persona con cui condividere vita vera.
E qui torniamo alla storia di Marco, il ragazzo con 700 contatti che si sentiva solo. Dopo mesi di attività con il progetto, ha detto: “Ho meno tempo per stare sui social, ma non mi pesa. Ora ho due amici con cui posso parlare davvero”. Non aveva bisogno di più chat, ma di più relazioni. Ed è questo il passaggio: dalla connessione alla relazione, dal digitale che isola al contatto che unisce.

Luciano Guazzi

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